Ero a Milano quando la notizia del paziente 1 si stava diffondendo attraverso il mondo dei digital media. I Inizialmente mi sono fatto prendere dalla situazione ed ho cercato di ricostruire i miei percorsi durante le settimane precedenti, dove ero stato e con chi ero entrato in contatto. Travolto dall’impatto della notizia, consultavo continuamente il mio smartphone alla ricerca di aggiornamenti continui. Non me ne rendevo conto ma a riportarmi sulla “retta via” ci ha pensato l’app che avevo installato sul mio smartphone e che aveva registrato come e quanto lo avevo consultato: 3 ore e mezza con oltre 150 sblocchi!!!
La mia dipendenza da smartphone ha numeri diversi (molto minori) ma questi mi avevano fatto molto riflettere. Mi ero improvvisamente reso conto di essere finito in uno stato di caos digitale: l’infodemia mi aveva travolto. E così mi ero ritrovato stordito dal virus mediatico di questa circolazione eccessiva ed incontrollata di notizie, talmente false e fuorvianti, da non riuscire più a farmi comprendere quello che stava realmente capitando. Avevo quindi realizzato che l’unico modo per non essere spaesati era spegnere il cellulare, non cercare notizie infondate ed attenersi alla oggettività dei fatti.
Nella realtà la situazione ha reso necessario un intervento politico atto a circoscrivere le “zone rosse” considerate i focolai del coronavirus. Migliaia di persone improvvisamente sono state messe in quarantena e costrette ad un cautelativo riposo forzato, lontane dal lavoro, a casa in famiglia e con i figli.
Qualcuno di loro è stato più fortunato ed ha avuto la possibilità di continuare a lavorare secondo le regole dello smartworking che, detto diversamente, è un modo intelligente di combinare la vita privata e quella lavorativa e incontrare il “work-life balance” di cui tutti avrebbero bisogno anche in assenza di emergenze sanitarie. Questo gruppo di persone ha continuato a seguire lo schema lavoro-casa ma c’è un altro gruppo di persone molto più numeroso che è stato “meno fortunato” ed improvvisamente ha cozzato contro una vita completamente sconnessa dall’abitudinarietà.
Da come li ho visti in televisione, durante i primi giorni assalivano i supermarket come se stesse per arrivare l’apocalisse. Me li sono immaginati pronti a chiudersi in casa, spiare dal lato della finestra tenendo in mano il fucile, pronti a sparare alle “navi da combattimento provenienti dei bastioni di Orione”.
Poi ho sentito una intervista alla radio ed ho realizzato che fortunatamente non è continuata così ed anziché barricarsi in una solitudine e comunicare con il mondo esterno sfruttando la sola fredda comunicazione digitale, per loro era arrivato il momento di riscoprire il diritto alla disconnessione.
Quelli che effettivamente non avevano la necessità di chiudersi in casa, grazie alle bellissime giornate di sole, hanno approfittato dell’occasione per fare una passeggiata, scambiare qualche parola con il vicino e sentire come sta. Durante questa sosta forzata hanno potuto abbandonare la propria dipendenza dallo smartphone e dallo status always-on, ovvero sempre connessi.
Ora lo scenario è diverso: ci sono genitori che passano più tempo con i figli all’aria aperta, famiglie che si incontrano e parlano tra di loro, scambiano informazioni sui loro figli e la scuola, raccontano dei loro lavori, comunicano su tutto senza passare attraverso un gruppo di Whatsapp.
Sembra banale ma non lo è. Improvvisamente la sconnessione dalla realtà è diventata una opportunità per disconnettersi non solo digitalmente. Passati i primi giorni di psico-panico, la crisi e le difficoltà correlate sono diventate una irrepetibile possibilità di vedere che i legami sociali iniziano a sostituirsi ai legami digitali, iniziando a sviluppare un senso di appartenenza e condivisione.
Tutto quello che sembrava ostacolato dai mille impegni, adesso non lo è più e viene riscoperto il valore del rapporto umano. La forza di un Buongiorno guardando negli occhi la persona che incontri vale più di un rispettoso saluto e diventa un augurio. L’interesse ed il rispetto per il prossimo stanno contribuendo a sviluppare la percezione di contare per il gruppo, rigenerando il bisogno di integrazione e spingendo verso il bisogno di avere una connessione emotiva.
Tutto questo panegirico è riassunto nella riscoperta di un valore, troppo spesso sottovalutato, e riassunto in una sola parola: comunità. (1-2)
Ma questo valore non è limitato e, dato che le difficoltà uniscono, il senso della comunità va oltre i confini delle zone rosse ed inizia a farsi sentire nella forma del rispetto per gli altri, quelli che non si conoscono e quelli con cui apparentemente non si ha nulla da spartire. (3)
Chiudo con un auspicio. Spero, almeno per quelli che sono riusciti in questo periodo a staccarsi dalla quotidianità, che raggiungano la consapevolezza che non debbano sempre correre, sopraffatti dal lavoro, dimenticando il beneficio di un sano equilibrio relazionale. Vorrei che coloro che hanno approfittato della “vita diversa”, scoprano di essere stati in un processo di detox in cui sono state eliminate le tossine della routine ed hanno rincontrato il diritto alla disconnessione.
Una semplice ricetta (forse) in controtendenza: togli un po’ di digital ed un po di stress, aggiungi relazione umana quanto basta ed ottieni più comunità.
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Riferimenti:
1.https://www.varesenews.it/2020/02/caro-coronavirus-sindaco-bisuschio-scrive-ai-suoi-cittadini/904249/
2.https://invececoncita.blogautore.repubblica.it/articoli/2020/02/28/il-senso-di-comunita-nei-giorni-del-virus/?refresh_ce
3.https://www.padovaoggi.it/attualita/michele-famiglia-isolamento-senso-comunita-padova-22-febbraio-2020.html