
Vi ricordate come erano le giornate di quando eravamo piccoli?
Le nostre erano lunghe e ricche di tutti quegli impegni che caratterizzano la vita di un bambino. Facevamo un lavoro duro e stancante, ma appagante al punto che dopo cena crollavamo e ci addormentavamo con la voglia di ricominciare il giorno dopo. Non eravamo vittime di sfruttamento del lavoro minorile, eravamo semplicemente impegnati nel mestiere più bello del mondo: essere dei bambini che imparavano crescere, si divertivano ed attraverso il gioco provavano ed apprendevano nuove esperienze.
E adesso?
Ora le nostre giornate sono per la maggior parte corte, veloci, automatizzate da gesti rituali che spesso tolgono il gusto della novità e della sperimentazione. In altre parole, abbiamo dimenticato l’entusiasmo che ci guidava e proviamo sempre meno coinvolgimento in quello che facciamo. Specialmente nel contesto aziendale, la mancanza di engagement diventa sinonimo di demotivazione, improduttività, inefficienza e, in casi estremi, passività.
Se trasliamo questo concetto a quando eravamo bambini, possiamo paragonare la situazione attuale con un contesto in cui si sarebbe fatto sempre lo stesso gioco, con le stesse regole, con gli stessi giocatori e con gli stessi risultati. Bloccati in un loop come nel film Ricomincio da Capo, costretti a rivivere “Il giorno della Marmotta”, ed accompagnati dal mood di Casa Vianello “Che barba! Che noia!”.

Questa premessa è il motivo per cui oggi nelle aziende si parla sempre più spesso di gamification, ovvero l’utilizzo di elementi caratteristici del gioco in contesti diversi. Inizialmente utilizzata nel marketing per catturare ed appassionare il cliente, oggi viene anche sfruttata per contrastare l’atrofizzazione dello spirito dei lavoratori e cercare di aumentarne il coinvolgimento.
La gamification fa leva sulla scala dei bisogni naturali dell’uomo (Piramide dei bisogni di Maslow) e la competizione è il motore che spinge ad esplorare i diversi livelli di sicurezza, appartenenza, stima ed autorealizzazione. Questa è la ragione per cui, definendo le regole del gioco e portando l’interazione ad un livello ludico, vengono solitamente appiattite le gerarchie e stimolati dei comportamenti attivi in cui le persone sono chiamate a prendere decisioni e compiere azioni per raggiungere l’obiettivo della vittoria.
Le attività ludiche sono caratterizzare da una emozione positiva in cui i protagonisti, non avendo nulla da perdere, sono pervasi dall’eustress (stress positivo e costruttivo) e possono essere se stessi svincolati dalla costrizione dei ruoli che ricoprono quotidianamente.

Perché organizzare momenti di gamification?
Un primo motivo lo abbiamo già enunciato e si tratta di portare la comunicazione e l’interazione alla pari, fuori dagli schemi organizzativi. Un secondo aspetto è legato all’apprendimento, favorito dal processo limbico che elabora l’esperienza positiva. Ad esempio, ci sono contesti in cui vengono sviluppate alcune soft skills latenti che non riescono ad emergere nell’ambito lavorativo.
In altri casi si possono generare situazioni in cui si riescono sperimentare processi, prodotti o servizi complessi. Da non trascurare, infine, come viene stimolata la creatività. La partecipazione ad esperienze fuori dai tradizionali schemi quotidiani, aiuta a sviluppare il pensiero laterale in grado di elaborare soluzioni alternative e non convenzionali.
Dietro al gioco c’è però qualcosa di più profondo. Un progetto di gioco ben fatto deve essere correlato da un sistema di monitoraggio dei comportamenti dei giocatori. Monitorare, tracciare ed analizzare le scelte di ogni singolo giocatore consente di identificare quali sono le attitudini di ognuno. Ad esempio, potrebbero mostrarsi competenze che non vengono utilizzate nello svolgimento quotidiano delle proprie mansioni e da questa base possono essere strutturati successivi processi di empowerment per l’individuo.
Organizzare un momento costruttivo di divertimento aziendale non è per niente una cosa semplice. Per supportare questi progetti stanno nascendo figure professionali, come il gamification designer, un esperto in design comportamentale, fortemente specializzato nella costruzione di esperienze ad alto tasso di coinvolgimento. Ogni passaggio dell’esperienza viene pensato in modo da guidare ed influenzare le scelte degli utenti/giocatori il cui fine è il raggiungimento del premio. Il loro mantra è mettere il cliente al centro dell’esperienza, progettare il percorso di engagement partendo dalla persona, definendo le ipotesi di azione, individuando le interazioni ed ipotizzando reazioni, comportamenti e, appunto, indirizzando le scelte. Parallelamente, per ogni singolo elemento progettato, ne definisce anche il sistema di misura per la analisi ex-post dei dati che diventa fondamentale nella profilazione del comportamento del giocatore.

“Roba da nerd o da geek!”
Immagino che questo sia il commento più gettonato di questo articolo. Tuttavia, nelle centinaia di puntate di Big Bang Theory più volte compare il gioco come protagonista e le memorabili partite di paintball diventano un momento in cui, quando decadono le gerarchie, aumenta il confronto ed emergono valori come il senso di appartenenza ed il rispetto.
Pensate ad una partita di paintball in azienda, squadre miste con sconosciuti colleghi di altre divisioni, chi vorrebbe giocare per perdere? Pensate ad un business game in cui la squadra che raggiunge l’obiettivo si aggiudica un premio offerto dalle squadre perdenti, chi perderebbe l’occasione di competere?
Pensate ad un gioco di ruolo in cui le posizioni apicali sono alla pari, in quale altra opportunità un impiegato potrebbe mostrarsi diverso ed un manager potrebbe conoscere meglio i suoi collaboratori?
Il gioco è comunicazione e non partecipare significa non comunicare.
Torniamo a comunicare come se fossimo bambini, abbiamo ancora tanto da imparare.